Cosa c’è di Vero(nica) in questo romanzo non lo sapremo mai.
Sappiamo che ci sono i ricordi o quella parte di essi che si sceglie, più o meno inconsciamente, di portarsi dietro per non perdere pezzi di sé con cui, tuttavia, bisogna fare i conti.
Questo libro è un album di ricordi storti e sgangherati, una raccolta di fotografie in cui nessuno è venuto bene ma che il fotografo ha deciso comunque di pubblicare aiutandosi con photoshop per rendere più presentabile il risultato finale.
Veronica ha una famiglia sui generis: madre iperapprensiva con sindrome da localizzazione coatta e immune a qualsivoglia forma di privacy; padre paranoico con la smania di dividere le stanze senza motivo e disinfettare tutto e tutti con l’acol; fratello genio.
Su questo nucleo centrale si innestano parenti pugliesi, amiche del cuore, fidanzati improbabili, presunte amanti, maniaci con l’impermeabile, le cui vicende si intrecciano con quelle della protagonista e della sua famiglia in maniera tragicomica.
Nel tentativo di riconciliarsi coi propri ricordi, l’autrice lo fa nell’unico modo possibile: indivituatone il potenziale comico, decide di fare una sorta di adattaemnto teatrale dell’assurdo della propria vita per renderla più plausibile, prima a se stessa e di conseguenza a chi legge, senza perciò doverla dimenticare o doversene disfare.
La scrittura del romanzo diventa quindi auto-terapia, esorcismo narrativo che bonifica il ‘nonostante tutto’: l’unica via di fuga da una realtà nella quale, altrimenti, si rischia di rimanere intrappolati: “ogni volta che mi sono sentita chiusa (…) non ho provato a fuggire ma a inquinare il raziocinio della stanza e delle regole. A immaginare cose finte, a dirle, a provocarle, fino a crederci”.
In questo modo – scrive Raimo – “ho trasformato il mio imbarazzo di un tempo in una forma di godimento intimo” perche’ “l’assurdo disarma[va] il disagio”. Un po’ come un vaccino: iniettarsi il virus per evitare di ammalarsi.
Come le note in musica, così anche le parole in letteratura, sono strumentali ad un racconto e in entrambi i casi è la scelta delle armonie, dei registri narrativi a fare la differenza: Veronica poteva scegliere che il suo romanzo fosse Boheme o Tosca, invece mette in chiaro fin dalle prime battute che si tratta di opera buffa.
Si parla di adolescenza, solitudine, morte, paura, noia, insofferenza, sesso, stitichezza, ossessioni, religione, amicizia, relazioni, libri. E non fa differenza essere alla periferia nord-est di Roma, piuttosto che in Puglia, ad Ascoli-Piceno o a Berlino; o che la protagonista abbia dodici o qurant’anni: spazio e tempo trovano quella perfetta sintonia dinamica fatta di coerenza, nessi causali ed inferenze, che solo la vera menzogna ha la capacità di generare.
Il racconto scorre tra pacata inquietudine e distacco. La voce narrante non tradisce alcuna emozione, fragilità o disagio ma arriva, piuttosto, alla accettazione di sé e della propria storia come unica forma di sopravvivenza possibile, attraverso riflessioni talvolta impietose ma liberatorie.
Il tono è piacevolmente irriverente, comico, dissacrante e comunque potente e diretto.
Lo stile è asciutto, semplice, fatto di periodi brevi ma densi, come quelli che fanno da incipit ad ogni capitolo, quasi sempre strappando un sorriso: “i momenti più profondi di solitudine li ho vissuti sulla tazza del cesso”.
In questo esercizio di sabotaggio della memoria per il proprio tornaconto personale, il compromesso tra verità e menzogna per il fine ultimo della sopravvivenza non lascia nulla di irrisolto, verità e bugie sono in perfetto equilibrio tridimensionale.
E il risultato è così realmente spettacolare che il lettore ne viene ipnotizzato e partecipa dello stesso godimento intimo dell’autrice.
E non importa, a questo punto, se e quanto ci sia di Vero: tutto? Poco? Niente?
“Ma sì dai, facciamo che è lei”.
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