Ci risiamo.
Nuovamente rinchiusi, bloccati nelle nostre case che fino a poco più di un anno fa erano i luoghi del cuore, il porto sicuro in cui cercare riparo dopo le stressanti giornate di lavoro, dopo che non ne potevamo più dei colleghi antipatici e dei capi stronzi, dove, rientrando a fine giornata, non vedevamo l’ora di metterci in ciabatte e sprofondare sul divano, raccontarci e rifugiarci nelle braccia delle persone amate.
Il Covid (e ripeto l’ovvio) ha distrutto ogni equilibrio, rimescolato le carte, sparpagliato i pezzi del puzzle in una maniera che sembra irrimediabile. E Dio solo sa cosa ancora può succedere. Questo virus, soldato impavido dell’esercito comandato dal Generale 2020, ha invaso il territorio di ognuno di noi nella parte più intima e remota facendo piazza pulita di ogni certezza, di tutto ciò che sembrava nostro e scontato di diritto; ma ha anche fatto pulizia portandosi via i giocattoli rotti, quelli che non hanno mai funzionato a dovere fin dall’inizio, le cartacce gettate per strada, le montagne di foglie secche accumulate ai piedi degli alberi spogli e la cui unica funzione era ormai fare un inutile rumore al calpestio.
A marzo scorso siamo stati colti di sorpresa e inizialmente scioccati e infastiditi da questa mosca petulante e irriverente che poi si è rivelato essere un pericoloso calabrone capace di pungere a morte.
Ci hanno detto di stare a casa per un po’, non si sapeva quanto, hanno navigato a vista e noi li abbiamo seguiti sperando di tornare a toccare la terraferma, come i barconi dei migranti che arrivano e fuggono verso un altrove che sperano di raggiungere ma che, a volte, non vedranno mai. Dopo una breve e superficiale sosta su un’isola di carta durata giusto il tempo di un bagno di sole, i bagni di folla sono stati nuovamente ammoniti e aboliti e i capitani coraggiosi dei barconi ci hanno detto che non andava più bene, che dovevamo fare i bravi altrimenti ci avrebbero rinchiusi di nuovo.
E, bravi o no, per lutto o per speranza, siamo nuovamente sprofondati nel nulla delle nostre case-prigioni, dove anche gli affetti più profondi possono diventare aguzzini e dove dobbiamo ripararci come nei bunker ai tempi della guerra.
Siamo in guerra: col virus, col mondo e i suoi mali incurabili, con gli altri da cui dobbiamo distanziarci, difenderci e nasconderci, e con noi stessi. Le guerre, è vero, uccidono ma – la storia ci insegna – servono anche per raggiungere la libertà (benché siano sempre da scongiurare).
La nostra vita e la nostra quotidianità sono state prese a pugni, sparate dritte al cuore da cecchini esperti: ma non illudiamoci che queste cose possa farle solo Messere Covid, a volte ci spariamo al cuore da soli o ci mettiamo alla merce’ di chi può farlo senza scrupoli.
Ed oggi siamo nuovamente qui, nel tempo sospeso e immobile dell’attesa vana a cui ci siamo preparati con dovizia e affanno: ci siamo assicurate che i capelli fossero in ordine, che le sopracciglia venissero sfoltite, abbiamo lo smalto fresco alle mani e ai piedi curatissimi come per il giorno della festa.
Mentre tutto intorno muore, noi, inconsciamente, cerchiamo una rinascita nelle piccole cose, per illuderci e convincerci che è tutto temporaneo e presto finirà. Il senso della libertà perduta, di un caffè al bar, di un concerto dal vivo, di una sosta in libreria; gli armadi che custodiscono, chiusi e muti, le nostre intristite uniformi dei giorni normali, le pile di mascherine davanti alla porta di ingresso di casa…tutto è questo disperato autunno anomalo e viziato dall’aria consumata dal disagio e dalla paura di un non-poter- (più) -essere.
Cominciamo col vincere la paura, in tutte le sue sfumature e forme: che sia il primo passo verso una rinnovata libertà.
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